Alessandro Fersen e la nascita del mnemodramma
Alessandro Fajrajzen, in arte Alessandro Fersen, è tra i principali Maestri della scena teatrale occidentale del XX secolo. Il suo mnemodramma segna una pietra angolare in quel processo di trasformazione delle tecniche di recitazione iniziato da Stanislavskij e poi in vario modo ampliato e modificato da altri grandi del Teatro come: Artaud, Craig, Mejerchol’d, Vachtangov, Grotowski.
Possiamo dire che nella sua vita si concentra tutta la storia drammatica di un secolo attraversato da ben due guerre mondiali. Infatti Alessandro Fajrajzen nasce nel 1911 a Łódź, in Polonia, da una famiglia ebraica. A soli tre anni si trasferisce con la famiglia in Italia, a Genova, dove frequenta la scuola elementare, il liceo e l’università. Dopo la laurea in filosofia va a Parigi dove frequenta il cartel, cioè quel sodalizio artistico fra registi come Dullin, Jouvet, Baty, Pitoev, Copeau, nato intorno al 1930 per contrastare il teatro commerciale e accademico di matrice ottocentesca. Da Parigi si sposta a Varsavia e in Bielorussia da dove riesce miracolosamente a fuggire nel 1939 prima che si chiudano le frontiere a causa della guerra scatenata dalla follia criminale nazista. Per Alessandro Fersen inizia così il periodo della lotta antifascista che lo vede unirsi al gruppo di intellettuali fondato da Carlo Rosselli e Giuseppe Rensi. All’inizio del 1943 entra nella resistenza e dopo poco è costretto a rifugiarsi con la famiglia in Svizzera. Seguono vari pellegrinaggi da un campo profughi all’altro finché nel 1945 ritorna in Italia dove Sandro Pertini lo propone come segretario del CLN per Genova e la Liguria. Fersen accetta l’incarico e contemporaneamente collabora al “Corriere del Popolo” ma ormai tutto il suo interesse è rivolto al teatro. Nel 1947 mette in scena la commedia Lea Lebowitz che ha rielaborato da un’antica leggenda chassidica con la scenografia e i costumi di Emanuele Luzzati, suo grande amico e collaboratore, e da questo momento ha inizio la sua prodigiosa attività teatrale come regista, drammaturgo e infine pedagogo. Infatti nel 1957 fonda a Roma lo Studio Fersen di Arti Sceniche in cui inizialmente applica il metodo Stanislavskij che poi abbandona perché lo ritiene troppo influenzato dal naturalismo e dal positivismo dell’inizio del secolo. Egli ritiene che il teatro moderno abbia perduto il potere di incidere sul comportamento dell’uomo nel mondo e sia diventato una sorta di attività solo estetica, ludica. È convinto che per una vera, totale rinascita del teatro occorra fare riferimento all’antropologia, l’unica scienza in grado di aiutare il pedagogo a formare un nuovo tipo di attore capace di riacquistare la memoria ancestrale perduta, comune a ogni essere umano, riappropriandosi dell’atto teatrale primigenio, quello dell’«Uomo che si immedesima nel dio, che diventa il dio». A questo punto Alessandro Fersen affronta un lungo e faticoso viaggio in Brasile dove studia la magia e i riti ancestrali ancora praticati presso le popolazioni indigene. Ma ecco come egli stesso descrive le motivazioni della sua lunga e complessa ricerca in un raro filmato: «Mentre le altre arti sono riuscite a rinnovare le proprie capacità espressive, il teatro continua ad usare il suo linguaggio tradizionale. Ne nasce, soprattutto nel confronto con i mass-media, una sorta di confusione delle lingue. In questa situazione di incertezza ritengo necessario andare la ricerca del vero linguaggio teatrale, ammesso che esista, risalire alle origini della vita teatrale per renderci conto del modo in cui il teatro si configura nella cultura originaria, della sua collocazione, del suo linguaggio. È a questo punto che in laboratorio entra l’antropologia. L’antropologia è infatti in grado di fornire informazioni molto accurate su quella originaria forma di teatro che è la ritualità. Nel rito l’officiante si immedesima con il dio, perde la sua identità privata, diventa il dio. Questo è il nucleo della vita teatrale, ossia la capacità di diventare altro da sé. Successivamente il dio è stato sostituito dal personaggio ma l’operazione resta sempre la stessa. Oggi quest’operazione è stranamente conculcata, distorta, addirittura obliterata dai mille condizionamenti della vita moderna. Si tratta quindi di vedere se è possibile restituirla alla vita d’origine. In laboratorio sono partito dalla considerazione che in tutta la ritualità esistono oggetti-simbolo, rituali che fissati o manipolati dai credenti, dai partecipanti hanno il potere di scatenare stati di coscienza profonda, stati di trance. È proprio in questo evento teatralissimo che è la trance che si osserva la nascita dell’evento teatrale. Nella nostra cultura non abbiamo oggetti-simbolo validi per tutti poiché il nostro orizzonte culturale è estremamente frantumato e non possiamo ricorrere a oggetti simbolo significanti. In laboratorio siamo quindi ricorsi ad una serie di oggetti della vita quotidiana o astratti o anodini, partendo dall’ipotesi che esista una struttura psichica che presiede l’atto teatrale ed è sempre uguale a se stessa ma che è caduta in disuso. È possibile riattivarla? Questo è il problema. Ho creato quindi una particolare tecnica che ho chiamato mnemodramma o dramma della memoria. Ma non della memoria privata o non solo di quella, ma della memoria ancestrale e collettiva».
Tornato in Italia, sperimenta con i suoi giovani allievi una nuova tecnica di laboratorio che chiama mnemodramma mentre il suo Studio di Arti Sceniche diventa un centro di cultura interdisciplinare frequentato da artisti e intellettuali. Dal 1975 al 1978 dirige il Teatro Stabile di Bolzano dove presenta, fra l’altro, anche uno dei lavori dello Studio, il Leviathan, in cui gli attori lavorano secondo la tecnica del mnemodramma.
Alessandro Fersen scompare a Roma, il 3 ottobre del 2001. Nel 2004 la figlia Ariela crea la Fondazione Alessandro Fersen con l’intento di curare la divulgazione, lo sviluppo e lo studio delle opere e della metodologia di insegnamento del Maestro, una metodologia che oggi, in Italia e all’estero, è oggetto di tesi di laurea ed è praticata da molti suoi ex-allievi e studiosi.
da “Scena”, n.57, 2OO9